La sovrapposizione (di immagini, scritte, loghi, macchie) e l'interruzione come a tagli, a linee falcate sottili che s'irrobustiscono o si allungano come materia elastica e plastica sono due dei segni ricorrenti nella tumultuosa precipitazione dell'universo figurativo e formale di Schnabel: esse forniscono alcune linee di lettura ma non esauriscono certamente tutti gli scarti repentini, sia formali che semantici, in cui si gioca lo spostamento ininterrotto del suo discorrere e rappresentare, del suo inabissamento, delle sue apnee, delle riemersioni e delle esplosioni cromatiche.
Schnabel sembra compulsivamente indotto a mutare il senso, a spiegare didascalicamente ciò che è e che non appare, ovvero ciò che pur nell'apparire tradisce i sensi e la ragione (Di che pasta sei fatto, Inviernosexoprimaveral, Maricha para ligar marica para luchar, Hat Full of Rain e così via); ciò che gli consente di ridisegnare la ragnatela di significazioni e la geometrica semplicità di ordinate e ascisse.
Le mostre di Schnabel diventano, nel momento stesso in cui si definiscono e in quello in cui si realizzano e si montano, un'opera nell'opera o, se si vuole, un metatesto composito, inafferrabile e irriducibile a una sola dimensione, a una sola categoria e tipologia espressiva.
Così è in questa mostra del Correr, in occasione della quale è stato realizzato il volume: la molteplicità e la complessità del lavoro (e dei linguaggi) di Julian Schnabel emergono in tutta la ricchezza e la tridimensionalità della sua scrittura, in tutta l'ambiguità creativa del suo ininterrotto prometeico aggirarsi tra segni e cose, nel suo incessante mutare le cose in segni e i segni in cose.
(dal testo introduttivo di Giandomenico Romanelli)